Novità Italiane: The Mighties "Augustus" (We're at fruit records-Sob records, 11 Aprile 2019)
Dopo dieci anni di attività il quintetto rock garage perugino dei
Mighties pubblica il primo disco dopo quattro EP. “Augustus” è stato mixato da Jacopo Gigliotti dei Fast Animals And Slow Kids e spedito per
il master negli Stati uniti. Il risultato? Le 11 tracce seguono un discorso
molto delicato, immettere dosi di punk poppettaro nel revival del revival, in
quel neo-neo-garage che da 15 anni è diventato una nota costante nel
pentagramma del rock contemporaneo. Come funziona il meccanismo? I puristi
immettono tocchi di Cramps nella lezione dei Fuzztones, e un paio di piccole
citazioni dei Cynics e dei Fleshtones, quando va bene; altrimenti, Strokes e
White Stripes con la loro protervia commerciale di bassa lega. Gli italiani
Mighties stanno a metà del guado in buona compagnia dei loro maestri, i Black
Lips. Ciò comporta o genialità o indecisione, come in questo caso. Il disco è
pieno di idee e suggestioni, le composizioni denotano effettivi miglioramenti
ma la produzione, sebbene migliore degli episodi precedenti, non sfugge al
solito clichè italiano post-progressive anni ‘70: la voce davanti agli strumenti,
e questo nel rock è suicidio. Il tipico hammond e la chitarra paiono registrati
negli anni ’50, il tentativo è quello di cercare l'aroma speziato del passato
ma tutta l'architettura non regge. Chinese
Drop e Casablanca sono le canzoni
che spiccano in questo breve disco, ed è un peccato che in Italia si continui a
registrare rock per una metà imitando e per l'altra adattando mezzi
insufficienti ai climi altrui. Con le giuste mosse comunque i Mighties
potrebbero avere qualcosa da dire in futuro.
The Raconteurs - "Help Us Stranger" (Third Man Records 21 giugno 2019)
Dopo 11
anni i The Raconteurs tornano con un
nuovo album dal titolo “Help Us
Stranger” per la Third Man
Records, etichetta dello stesso Jack
White, la band attiva dal 2006 è al terzo disco, i brani sono tutti
prodotti dalla band e registrati negli Third Man Studios di Nashville con la
collaborazione di diversi musicisti tra cui spicca l’ormai richiestissimo
polistrumentista Dean Fertita (QOTSA).
Le 12
canzoni tra cui una cover, Hey Gyp di
Donovan, mostrano un lavoro sontuoso,
una miscela esplosiva di rock classico, blues di Nashville sporcato dal garage
rock di Detroit, brani che lasciano il segno fin dal primo ascolto, suoni e
arrangiamenti studiati e mai lasciati al caso. Non c’è un solo brano da
skippare. C’è tutta l’America che conosciamo dal country all’hard rock, gli
strumenti ci sono tutti dall’armonica al piano Fender Rhodes, un disco che
scava alle radici salvo poi sporcarsi dei suoni eclettici di White, d'altronde la formula dei nostri
è collaudata. L’album si
apre con “Bored and Razed” come un treno
che accelera in corsa, col tipico fraseggio di chitarra a’ la
Jack White e il cantato
sincopato ormai suo marchio di fabbrica per poi aprirsi sull’inciso alle
melodie vocali di Brendan Benson. La
successiva “Help Me Stranger”è una amalgama ben orchestrata di chitarre
acustiche ed elettriche, percussioni e voci (registrate una a destra e l’altra
a sinistra), qui a far la differenza sono le poche e ben dosate note suonate da
Dean Fertita. Il brano, tanto per non
dimenticare le origini, si apre con un intro vintage da ballata cowboy degna
del miglior Elvis. “Only Child” è una
romantica ballad, qui Benson mostra
il suo talento nella costruzione di linee vocali melodiche, il tutto reso più
moderno dai synthesizers e dagli assolipoliedrici
di Jack White, sul ritornello poi le
due voci stanno insieme che è un piacere. Con “Don’t Bother Me” è di nuovo White
a prendere il volante fra le mani, accelerando il ritmo in un vortice sfrenato
di progressive pause e rincorse su un tappeto sabbathiano.“Shine the light on me” si apre con un coro beatlesiano e
guarda caso prosegue con un Honky-Tonk piano di stonesiana memoria, (leggasi Ruby Tuesday). Ancora Beatles in apertura di “Somedays (I Don’t Feel Like Trying)”,
brano che sul finale torna in America quasi a dire: “fatevene una ragione le
terre del rock&roll sono queste due”. E’ la volta di “Sunday Driver” riffone garage e basso distorto in ingresso e
classico bridge psichedelico a metà strada, un must.“Now That You’re Are Gone” è un giro armonico spiritual ma sono
gli arrangiamenti e le trovate di modernità a fare la differenza, così come in
tutti i brani del disco ed a renderli
attualissimi. Segue “Live A Live” brano tirato in puro
Detroit garage rock vedi alla voce Stooges che manco una band di ventenni. “What’s Yours Is Mine” episodio
funk-progressive dell’album farcito di chitarre plastiche del solito Jack
White. Ma è nella
conclusiva “Toughts And Prayers” che
i nostri palesano al mondo di essere cresciuti a pane e Zeppelin. Il brano è
una immensa ballata country-blues da brividi, ricca di violini e mandolini nella quale
la lezione di Jimmy Page e soci è
attualizzata e destinata a fare storia al pari di quella fatta dai padrini
dell’Hard Blues. Lasciatevi andare e lanciatevi col deltaplano sulle verdi
vallate irlandesi ed il viaggio è servito. Un album
che dimostra ancora una volta che la storia della musica rock è stata già
scritta, ma non per questo non si possa attingere ad essa per attualizzarla e
celebrarla, non fosse altro che per farci ancora godere di essa, in fondo è dal
passato che si impara, anche se il mondo non lo ha ancora capito e forse non lo
capirà mai. Quindi lode ai Raccontatori,
narratori di un mondo che non c’è più o forse c’è ancora nei nostri cuori.
Novità Italiane: Roberta and the crossovers "All the way home" – autoproduzione (1/3/2019) Un esordio che fa chiedere perchè un gruppo talentuoso sia costretto ad autoprodursi.Roberta Usardi è una cantante dalla timbrica avvolgente con idee che vuole sviluppare, quindi recluta Andrea Candido alla chitarra, Matteo Saronni alla batteria e Alfonso Aiozzo al basso, per una missione: riportare alla luce la gemma sonora del vasto magma del Crossover storico di fine anni 1980. Ma suonano in Italia e sono passati 20 anni dalle prodezze della scena nazionale, e allora danno dimostrazione fisica delle speranze e della tenacia di migliaia colleghi musicisti rimasti nell'ombra delle sale prova e dell'eterna rincorsa ai concorsi già decisi a tavolino.Suscitano sentimenti contrastanti per l'entusiasmo e l'assenza totale di produzione: in un clima da presa diretta, i Crossovers non sbagliano nulla nell'esecuzione, hanno solo bisogno di uomini sapienti nel registrare e nell'indirizzare, quindi l'ascolto diventa frustrante per le potenzialità che l'industria moderna tralascia. Inizia con Leave all the past behind, che poteva essere un buon brano dei Jane's addiction e continua a corrente alternata fra il bell'ibrido Rock Swing di The mistery that I hold e la triste Waiting room, Funky rock impoverito del brio necessario a involarla; l'omonima è grunge mentre al contrario, Soft, regala sprazzi d'intensità emotiva inusitata nella penisola. New piece of heaven fa la stessa cosa in stile Concrete blonde. Sarò con te è Pop sopraffino per palati raffinati, e alla fine c'è una traccia nascosta dove la cantante dimostra le sue capacità a tutto tondo. La zavorra Grunge non aiuta le composizioni che avrebbero bisogno di suoni più scintillanti, ma il lavoro è ascoltabile perchè mostra ciò che potrebbe essere e non è ancora. L'amalgama dei musicisti non è completo, le canzoni hanno bisogno di viaggiare verso lidi più consistenti, ma il gruppo suscita una simpatia che fa ben sperare. Luca Volpe
Perry Farrel, già frontman dei leggendari Jane’s Addiction e creatore dei
compianti Porno for Pyros nonché deus
ex machina del Lollapalooza music
Festival torna con un album solista dal titolo “Kind Heaven”. Sono trascorsi 18 anni dall’ultimo disco da solista
e per l’occasione mette su un’orchestra (come lui stesso la definisce) di
musicisti ospiti. Si va da Tony Visconti
storico produttore di Bowie, al
batterista dei Motley Crue Tommy Lee,
passando per Taylor Hawkins batterista
dei Foo Fighters, Peter DiStefano chitarra dei Porno for
Pyros e Dhani Harrison figlio del
beatle George. Al primo ascolto emerge fin
da subito la smania di strafare che porta il disco sui binari di un modernismo
kitsch a cui il nostro ci aveva già abituato in precedenza. Sarà per l’uso eccessivo di
campionatori e trucchetti elettronici o per la produzione troppo mainstream o
ancora per la costante presenza della vocina fastidiosa della moglie (Etty Lau Farrell novella Yoko Ono che
non lo molla un attimo), che l’album non solo non cattura ma altresì respinge. Peccato perché le canzoni ci
sono, andavano solo spogliate di quel suono distopico che le caratterizza,
svestite di quell’abito barocco, lo stesso abito rappresentato in
copertina in una grafica che tenta di
mischiare l’antico col futuro. Red, white and blue Cheerfulness, brano d’apertura, è un rock and roll sempliciotto
che non graffia. Segue Pirate Punk
Politician primo singolo pubblicato, che dal riff al solo sembra suonato da
un Dave Navarro dei poveri. Snakes Have Many Hips è uno swing che manco James
Bond in 007. Machine Girl
ha un giro armonico catchy su un tappeto di sintetizzatori e chitarre in
riverbero. L’indefinibile One, un mix
di chitarre funky, ritmi afro e coretti da stadio. Si continua con Where have You Been All My Life anche
qui bassi ed elettrobeat da dance club. Con More
Than I Could BearFarrel torna alla forma canzone e alle
melodie a’ la Jane’s
Addiction, sicuramente l’episodio più riuscito dell’album. La successiva Spend The Body cantata da Etty Lau
Farrell non sfigurerebbe ad un rave party. La conclusiva Let’s Pray For This World con echi
beatlesiani è una commovente preghiera della famiglia Farrell con i due
figlioletti ai cori. “Kind Heaven” è un disco costruito a tavolino e come spesso accade in lavori siffatti
si rischia di tracimare. E’ evidente nei brani che l’ansia di ricercare
sonorità originali non ha portato l’effetto sperato, sono lontani i tempi del Farrell ispirato genietto musicale che
surfava sull’Ocean Size.